Mancano, ormai pochi mesi al 31 dicembre 2020, data che sancisce l’uscita del Regno Unito dall’ Unione Europea.
Unione Europea e Regno Unito sono impegnati a negoziare i termini della Brexit e si accusano a vicenda della violazione delle clausole di buona fede contenute nell’accordo di recesso. L’ Europa, in particolare, ritiene che l’Internal Markets Bill (la legge sul mercato interno) del governo britannico, potrebbe minare gli obblighi previsti dal Protocollo con l’Irlanda del Nord. Dall’altra parte, però, il Regno Unito sostiene che l’Unione Europea miri ad imporre delle restrizioni all’accordo di libero scambio, diversamente da quanto avviene con gli altri paesi.
Ciò ha, inevitabilmente, acuito la tensione tra le parti. L’Unione Europea ha pubblicato una lettera in merito alla condotta del Regno Unito e non si esclude che si procederà per vie legali.
Il conflitto ha sollevato molti interrogativi sull’obbligo di agire in buona fede e sul rispetto di tale dovere negli accordi commerciali. Cosa si intende per obbligo di agire in buona fede? Le parti sono soggette al dovere di buona fede anche se non espressamente previsto dal contratto?
Nel linguaggio comune si intende agire con massima onestà. Per i giudici tale obbligo significa agire:
- Onestamente e in maniera fedele all’accordo;
- Ragionevolmente e con correttezza, nel rispetto degli interessi delle parti, delle disposizioni e dello scopo del contratto, oggettivamente valutati.
Le parti sono, dunque, tenute ad astenersi da comportamenti che sono ritenuti inaccettabili, nel contesto di una relazione commerciale, da persone ragionevoli ed oneste. Tale interpretazione, però, è molto ampia e incerta, non si può escludere, infatti, che una parte ritenga di agire onestamente in conformità ai propri doveri mentre l’altra considera determinate azioni del tutto inaccettabili. Da qui l’insorgere di una serie di controversie sul rispetto del dovere in esame.
I tribunali appaiono sempre più propensi all’introduzione delle clausole di buona fede nei contratti relazionali. La corte definisce i contratti relazionali come contratti destinati a durare per un periodo non breve o addirittura per un periodo di tempo indeterminato e caratterizzati dalla necessità di una costante collaborazione tra le parti contraenti. Esempi di contratti relazionali potrebbero essere i contratti di joint venture, accordi di franchising e di distribuzione a lungo termine.
I giudici, assumendo di trovarsi di fronte ad un contratto relazionale, hanno ritenuto che il dovere di buona fede fosse un termine implicito del contratto, indicando gli altri elementi in base ai quali un contratto può essere considerato relazionale:
- L’ assenza di clausole che escludono l’esistenza di un obbligo implicito di buona fede;
- La lunga durata del contratto;
- L’onere delle parti di rispettare l’accordo con integrità e fedeltà;
- La necessità di una costante collaborazione e di continue comunicazioni e scambio di informazioni tra le parti;
- La necessità di investimenti o impegni finanziari.
Le parti che, dunque, intendono avvalersi della clausola di buona fede, dovrebbero renderlo esplicito nel contratto. Occorre, però, considerare se limitare o meno l’applicabilità di tale clausola a determinate parti o sezioni del contratto, così da ridurre il grado di incertezza determinato dall’interpretazione dell’obbligo di buona fede.